Il nostro viaggio nel tempo continua nell'arte.
- Carlo Colombo
- Apr 13, 2021
- 6 min read
Updated: Apr 14, 2021
Molti sono gli artisti che hanno utilizzato, manipolato, cercato di rappresentare il tempo nelle loro tele. Partiamo dal grande Picasso.

Nei suoi quadri, l’artista spagnolo osserva gli oggetti sotto diversi punti di vista. Dopo aver operato una scomposizione delle forme e dello spazio, li ricompone, li rappresenta sulla tela, in base alla conoscenza che ha acquisito degli oggetti stessi. Per poter vedere un oggetto da più punti di vista, è necessario che la percezione avvenga nel tempo. In un tempo prolungato che non si limiti ad un solo istante. Ecco, dunque, come la pittura cubista introduce la quarta dimensione.
La percezione del tempo è quella di un "tempolento". Un tempo da dedicare all'osservazione, alla riflessione, alla meditazione.

Nel Futurismo, invece, assistiamo al culto del tempo. Un tempo veloce, un dinamismo che agita tutto, sino a deformare l’immagine delle cose. Basti pensare al famoso quadro di Giacomo Balla del 1912, “Dinamismo di un cane al guinzaglio”. Un cagnolino è condotto al guinzaglio da una donna, di cui scorgiamo solo la parte inferiore del lungo abito di colore scuro e i piedi. Balla rappresenta, simultaneamente, le pose assunte, durante le diverse fasi del movimento, dal corpo del cane e dalla padrona. La coda, le zampe, il guinzaglio, i piedi: tutti questi elementi appaiono come deformati, ripetuti. Moltiplicati in una successione dinamica di fotogrammi sovrapposti, l’uno accanto all’altro. Balla riesce a catturare, a creare, a trasmettere all’osservatore un effetto di un movimento rapido. Le sequenze di un film, racchiuse in un unico fotogramma.

L'assenza di ogni riferimento temporale è, invece, la caratteristica della pittura metafisica. Tutto è immobile, la realtà stessa è mistero. Ce lo mostra Giorgio De Chirico con il suo dipinto “L’enigma dell’ora” del 1911. Al centro troviamo la raffigurazione di un orologio, posto su un edificio e fermo sulle tre meno cinque minuti. Non sapremo mai se funziona o non funziona. Tuttavia, è proprio l’immobilità di tutta l’immagine a suggerirci che anche l’orologio è fermo, anche se non lo sapremo mai. O forse esso è l’unica cosa che continua a muoversi? Segnando un tempo senza senso, perché non produce più modificazioni nel corso delle cose.

Nel quadro “La Danza” del 1910, Matisse sembra confermare il concetto relativistico di spazio-tempo curvo. La Terra, simboleggiata nel quadro da un colore verde intenso, presenta, infatti, una curvatura che sembra essere deformata dal peso di uno dei danzatori. Il blu nella parte superiore è il cielo. Ma è un blu così intenso e carico che non rappresenta la nostra atmosfera terrestre. Si tratta di uno spazio siderale più ampio e vasto, tale da contenere tutto l’universo.
Sul confine tra terra-cielo, o tra mondo-universo, stanno compiendo la loro danza cinque figure. Le loro braccia sono tese nello slancio di tenere chiuso un cerchio, che sta per aprirsi tra le due figure poste in basso a sinistra. Una delle figure è tutta protesa in avanti per afferrare la mano dell’uomo. Quest’ultimo ha una torsione del busto, per allungare la propria mano alla donna. La loro danza può essere vista come allegoria della vita umana, una danza gioiosa pronta a spezzarsi. E tutto ciò avviene sul confine del mondo, in quello spazio precario tra l’essere e il non essere. Tra tempo e assenza di tempo.

Complice anche il titolo evocativo, mi soffermo un po’ di più su un quadro che Salvador Dalì dipinse nel 1931, “La persistenza della memoria”. Un olio su tela, di dimensioni contenute, per la precisione 24x33, che raffigura un paesaggio costiero della costa Brava, nei pressi di Port Ligat dove l’artista aveva casa.
Il cielo mostra sfumature gialle e celesti. La scena, disabitata, priva di ogni vegetazione, è popolata da diversi oggetti. In primo piano, a sinistra, troviamo un parallelepipedo color terra. Sopra vi è appoggiato lo scheletro di un ulivo senza foglie, secco e malinconico. A fianco, adagiato sul suolo, un occhio abnorme dalle lunghe ciglia chiuse. Un basamento di color blu, della stessa tonalità del mare, s’ intravede sullo sfondo. Tre orologi da taschino molli, deformati, quasi liquefatti sono i veri protagonisti: squagliandosi si plasmano, seguendo la forma dei loro sostegni.
Il primo orologio, scivola oltre il bordo del parallelepipedo e ha una mosca posata sul vetro. Il secondo, è sospeso sull'unico ramo dell'albero secco. Il terzo, è avvolto a spirale sopra l’occhio dalle lunghe ciglia che rappresenta il profilo dell’artista stesso.
Un quarto orologio, l'unico ad essere rimasto allo stato solido, non deformato, è collocato sul parallelepipedo a fianco del primo. Però è messo di rovescio, ricoperto di formiche piccole, nere, brulicanti.
I primi tre orologi sono deformati dalla persistenza della memoria e sembra che si sciolgano sotto l’azione del sole. Rappresentano l’aspetto psicologico del tempo, il cui trascorrere assume una velocità diversa, interiore. Che segue i nostri stati d’animo, i nostri ricordi.
L’unico orologio non deformato è ricoperto di formiche, che sembrano volerlo divorare. Indica l’annullamento sia del tempo cronologico, sia dello strumento che lo misura.
Dalì nel deformare le immagini vuole mettere in dubbio le facoltà razionali, che vedono gli oggetti sempre con una forma chiara e definita.
Dipingendo l’orologio, che al sole si liquefa e si adatta alle superfici su cui viene posto, Dalì invita a riconsiderare la dimensione del tempo e della memoria: in quest'ultima il prima e il dopo si contaminano, si confondono. Si annullano.
Dalì, probabilmente stimolato dalla lezione di Einstein, riflette sulla relatività del tempo. Il suo scorrere è scandito dal moto ripetitivo degli orologi. Strumenti che hanno la presunzione di misurare in modo oggettivo. Però sono messi in crisi dalla memoria umana che è alla base della soggettività del tempo. Gli “orologi molli” sono come i ricordi che si deformano, col passare del tempo, nella nostra memoria.
Il quadro nasce dall’inconscio, dal sognare, rappresentato dal profilo accennato della creatura distesa a terra, che è il volto deformato dello stesso Dalì.
L’idea è quella di sottolineare come la realtà, in sogno o in stato di veglia, sfugga sia nella definizione oggettiva del tempo che passa, sia nella definizione fisica dello spazio.
Il tempo, rappresentato dai quattro orologi, non è un parametro affidabile. Segue la percezione, l’interpretazione che nasce dall’inconscio, che ne accelera o rallenta il movimento. Ritroviamo anche la lezione di Freud.
Il tempo non scorre nello stesso modo per gli animali, i vegetali, i minerali. Un’ora è tanto per una formica che vive appena pochi mesi. È nulla per noi esseri umani. È ben poca cosa perfino per un albero d' ulivo che può vivere per ben due secoli. Per non parlare dello scoglio, sentinella muta e perenne, lambita dal mare.
Ognuno ha una sua speranza di vita, una memoria che si muovono a velocità ineguali. Come gli orologi a cipolla che hanno abbandonato la presunzione di misurare il tempo. Essi stessi, come la memoria che caratterizza gli esseri umani, vivono, percepiscono il tempo in maniera diversa e ne vengono plasmati.
Dalì era una personalità eccentrica, fuori dagli schemi. Otre al significato dell’opera, che all’inizio era denominata “Gli orologi molli”, vediamo anche la genesi, come la descrive lo stesso autore.
“E il giorno in cui decisi di dipingere orologi, li dipinsi molli. Accadde una sera che mi sentivo stanco e avevo un leggero mal di testa, il che mi succede alquanto raramente. Volevamo andare al cinema con alcuni amici e invece, all'ultimo momento, io decisi di rimanere a casa. Gala (moglie di Dalì), però, uscì ugualmente mentre io pensavo di andare subito a letto. A completamento della cena avevamo mangiato un camembert molto forte e, dopo che tutti se ne furono andati, io rimasi a lungo seduto a tavola, a meditare sul problema filosofico dell'ipermollezza posto da quel formaggio.
Mi alzai, andai nel mio atelier, com'è mia abitudine, accesi la luce per gettare un ultimo sguardo sul dipinto cui stavo lavorando. Il quadro rappresentava una veduta di Port Lligat; gli scogli giacevano in una luce alborea, trasparente, malinconica e, in primo piano, si vedeva un ulivo dai rami tagliati e privi di foglie. Sapevo che l’atmosfera che mi era riuscito di creare in quel dipinto doveva servire come sfondo a un’idea, ma non sapevo ancora minimamente quale sarebbe stata. Stavo già per spegnere la luce, quando d’un tratto, vidi la soluzione. Vidi due orologi molli uno dei quali pendeva miserevolmente dal ramo dell’ulivo.
Nonostante il mal di testa fosse ora tanto intenso da tormentarmi, preparai febbrilmente la tavolozza e mi misi al lavoro. Quando, due ore dopo, Gala tornò dal cinema, il quadro, che sarebbe diventato uno dei più famosi, era terminato”.
Ancora molto ci sarebbe da dire sul rapporto tra l' arte e la dimensione del tempo o, se preferite, dello spazio-tempo, ma sarebbe una ricerca tendente all’infinito. Ma noi, almeno per il momento, ci fermiamo qui.
Comments