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"La luna e i falò" di Cesare Pavese. Il ritorno di Anguilla tra mito e realtà.

  • Writer: Carlo Colombo
    Carlo Colombo
  • Apr 8, 2021
  • 5 min read

Updated: Apr 9, 2021

“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.

“La luna e i falò”, l’ultimo romanzo di Cesare Pavese, scritto tra il 18 settembre e il 9 novembre 1949, venne pubblicato, nel mese di aprile, dell’anno successivo.

La vicenda è ambientata appena dopo la Seconda Guerra Mondiale. Il quarantenne Anguilla, questo è il soprannome del protagonista, torna a Santo Stefano Belbo, sua terra d’origine, per ricercare la sua identità. Cosa che non è riuscito a trovare oltreoceano, in America, dove era emigrato vent’anni prima.

Anguilla è un orfano, lasciato da una ragazza madre sugli scalini del duomo di Alba. Viene adottato da una famiglia di contadini con già due figlie, che lo aveva preso in casa per ricevere ogni mese le 5 lire dell'assegno di adozione e avere poi delle braccia da far lavorare nei campi. Allora abitavano il casotto di Gaminella, di due stanze e una stalla.

A tredici anni, a causa di una forte grandinata, il padre adottivo deve vendere il casotto e andare a fare il mezzadro a Cossano Belbo con le figlie, la moglie nel frattempo era morta. Anguilla sarebbe stato di troppo e allora viene preso a lavorare alla cascina della Mora. Qui è spettatore delle vicende amorose delle figlie di primo letto del padrone Silvia e Irene e assiste alla crescita in bellezza della piccola Santina. L’ultima delle figlie, nata dal secondo matrimonio del padrone Matteo con Elvira.

Durante il servizio militare a Genova, entra in contatto con l'ambiente degli antifascisti. Per sfuggire all’arresto e perché, comunque, gli sarebbe stato riservato un destino da servitore, s’imbarca per l’America. Qui riesce a costruirsi una piccola fortuna.

La nostalgia della terra dell’infanzia, il ricordo del mondo delle campagne lo spingono a tornare a Genova e poi a Santo Stefano Belbo. Il ritorno al paese però è amaro. Anguilla scopre che il mondo della sua infanzia è svanito. “…le facce, le voci e le mani che dovevano toccarmi e riconoscermi, non c’erano più”. Alla Gaminella, il podere dove è cresciuto, ora vive la famiglia di Valino, un uomo secco e nero con gli occhi da talpa, un mezzadro violento che sfoga sulla famiglia i rancori di una vita fatta solo di povertà e sofferenze. Anguilla stringe amicizia con Cinto, il figlio zoppo e rachitico di Valino e trascorre con lui molto tempo, rievocando e rivivendo gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza.

La ricostruzione degli avvenimenti durante la sua assenza dal paese, è legata ai racconti di Nuto. Un falegname e suonatore di clarinetto, più vecchio di tre anni che, al tempo, è stata la figura di riferimento per Anguilla. Ora è il custode del regno mitologico della sua infanzia. Nuto gli racconta anche tutti gli orrori della guerra civile contro i nazifascisti, sviando però le domande sulla fine di Santina.

Nel frattempo, una tragedia incombe. Dopo essere stato vessato dalla proprietaria, Valino in un raptus di follia massacra le donne di famiglia, la cognata Rosina e la suocera, incendia la Gaminella e s’ impicca. Si salva solo Cinto, che riesce a fuggire.

Prima di ripartire per Genova, Anguilla affida Cinto a Nuto. Questi se lo prende in casa per fargli fare il falegname e insegnarli a suonare.

Anguilla finalmente scopre anche l’atroce verità su Santina, la più giovane delle sorelle della Mora. Lui c’era ancora quando Silvia era morta, dopo aver abortito. L’anno dopo, a novembre, Irene aveva sposato Arturo, il figlio del medico. La primavera successiva Anguilla era partito per militare. In breve tempo, Arturo aveva dissipato metà del patrimonio di famiglia e malmenava la moglie. I due si erano ridotti a vivere in una stanza a Nizza Monferrato.

Nuto, nell’ultimo giorno di permanenza di Anguilla, gli racconta che Santina aveva un impiego alla casa del Fascio a Canelli ed era stata l’amante di molti fascisti. Si era messa poi a passargli delle informazioni che lui stesso trasmetteva ai partigiani. Santina si era poi infiltrata tra le fila della Resistenza, facendo però il doppio gioco. Scoperta, Santa era stata giustiziata e il suo corpo dato alle fiamme dai partigiani e dallo stesso Nuto. “Una donna come lei non si poteva coprire di terra e lasciarla così”. “L’altro anno c’era ancora il segno, come il letto di un falò”.


Molti sono i temi trattati da Pavese. C’è il mito dell’infanzia, che tutti noi recuperiamo quando diventiamo adulti. Nessun bambino ha coscienza di vivere in un mondo mitico, fuori del tempo. Da bambini il mondo s’impara a conoscerlo non, come sembra naturale che sia, con immediato e originario contatto con le cose, ma attraverso i segni di queste. Sono i grandi con le parole, i racconti, le favole, le fantasie ci fanno prendere contatto con il mondo circostante. A quel tempo la fantasia arriva a noi come realtà, come conoscenza oggettiva e non come invenzione.

Poi da adulti, ognuno di noi possiede una sua mitologia personale, che conferisce valore al nostro mondo più remoto, riveste le cose del nostro passato. Tutti noi riassumiamo così il senso della vita. Ecco, dunque, il nostro “tempo ritrovato” di proustiana memoria, dove il bambino e l’uomo adulto dialogano ogni giorno. C’è una frase bellissima di Pavese che credo più di molte altre, nella sua semplicità e immediatezza possa esprimere tutto ciò: “Son passati gli anni, ma davanti alla vigna l’uomo adulto contemplandola ritrova il ragazzo”.

C’è forte il tema del ritorno. Anguilla ha sete di conoscere, di scoprire cosa sia cambiato nel frattempo, quanto di suo, sia rimasto ancora in quei luoghi. Ora non è più un bastardo, cresciuto da una famiglia di contadini: è un altro. Vuole che chi lo ha conosciuto piccolo, povero, vinto, veda che ha fatto strada, che è diventato qualcuno. Ma nei luoghi del suo passato qualcosa si è perso: chi lo conosceva allora non è più qui per prendere atto del suo cambiamento.

Dietro alle storie delle sorelle della Mora ci sono le illusioni di un trovatello, c’è il tema ricorrente dell’amore non corrisposto: tutte le donne amate, le donne che avrebbe voluto amare, le donne che avrebbe voluto che lo amassero.

A far da tramite, da anello di congiunzione tra passato e presente c’è Nuto, l’amico di sempre, che non è mai andato via. Le storie che racconta riavvolgono il nastro di un tempo crudele, che non ha risparmiato nessuno. È una storia che ogni tanto torna a bussare, quando un corpo viene ritrovato. Una terra che rigurgita morti, spoglie di tedeschi e repubblichini giustiziati.

Questo luogo d’infanzia, delle feste in piazza, delle gare di musica, delle carrozze dei signori. Dove un tempo si passavano le notti a indovinare il futuro, guardando le stelle, con la luna padrona dei gesti e dei riti contadini, è un paese in cui tutto è cambiato e tutto è rimasto, allo stesso tempo, uguale, obbediente ai ritmi ancestrali della vendemmia, del raccolto, dei falò che bruciano all’orizzonte nella notte di San Giovanni. Ma anche il falò magico da rito propiziatorio nelle notti estive per la fertilità dei campi, per la pioggia, per il ricco raccolto si è trasformato in uno strumento di distruzione, di morte nella follia del Valino e nell’esecuzione di Santina.


Pochi mesi dopo l’uscita de “La luna e i falò” ad agosto, lo scrittore si tolse la vita a Torino. A nulla era valso, due mesi prima, l’aver vinto il premio Strega con “La bella estate”. Sfiduciato, ferito dal suo amore non corrisposto per l’attrice Constance Dowling, ma anche profondamente corroso dal suo male di vivere, Pavese scelse di non vivere più.

"Nessuno si uccide. La morte è destino. Non si può che augurarsela". (Dialoghi con Leucò).

 
 
 

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