top of page
Search

“I dialoghi con Leucò” di Cesare Pavese. L’uomo e il suo destino nel labirinto del mito.

  • Writer: Carlo Colombo
    Carlo Colombo
  • Apr 14, 2021
  • 4 min read

Updated: May 3, 2021

È il libro più caro a Pavese. Sono ventisette dialoghi, scritti fra il dicembre del 1945 e il marzo del 1947, dove divinità, eroi, comuni mortali della Grecia classica discutono il rapporto tra l’uomo e la natura, l'ineluttabilità del destino, la necessità del dolore e la condanna irrevocabile alla morte. Pavese, in questa raccolta, ci guida nella ricerca della vera essenza dell’uomo.

Il titolo è un omaggio a Bianca Garufi, scrittrice, poetessa e psicoanalista, conosciuta da Pavese a Roma presso la casa editrice Einaudi, dove entrambi collaboravano. Leucò, infatti, è la traduzione greca di Bianca, ed è anche il diminutivo della dea Leucotea.

L’interesse per i miti greci, gli archetipi junghiani e la letteratura sono tutti elementi in comune a Bianca e Cesare. Tra loro vi fu una lunga e tormentata relazione d’amore, non corrisposto. Dal loro sodalizio scaturirà il romanzo incompiuto “Fuoco grande”, scritto a partire dal 1946, ma pubblicato solo nel 1959 per volere di Italo Calvino.

Pavese per la prima edizione dei “Dialoghi”, così aveva scritto di se stesso: “Cesare Pavese, che molti si ostinano a considerare un testardo narratore realista, specializzato in campagne e periferie americano-piemontesi, ci scopre in questi Dialoghi un nuovo aspetto del suo temperamento. Non c’è scrittore autentico, il quale non abbia i suoi quarti di luna, il suo capriccio, la musa nascosta, che a un tratto lo inducono a farsi eremita. Pavese si è ricordato di quand’era a scuola e di quel che leggeva: si è ricordato dei libri che legge ogni giorno, degli unici libri che legge. Ha smesso per un momento di credere che il suo totem e tabù, i suoi selvaggi, gli spiriti della vegetazione, l’assassinio rituale, la sfera mitica e il culto dei morti, fossero inutili bizzarrie e ha voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano, tutti ammirano un po’ straccamente e ci sbadigliano un sorriso. E ne sono nati questi Dialoghi.”

Cosa possiamo aggiungere alla presentazione dello stesso autore?

I Dialoghi con Leucò” sono il fondamento, la cornice entro cui si inseriscono tutte le altre opere: l’inizio e la fine dei suoi scritti. Non rappresentano una discontinuità con tutto il resto. Pavese racconta il mito, la natura, il selvaggio, i sacrifici umani, il sangue, il sesso. Non è forse questa la vera trama in tutte le sue opere? Non è questo il "fil rouge" che parte da “Paesi tuoi” per arrivare a “La luna e i falò”? È proprio nei “Dialoghi” che mette a nudo i temi e i personaggi da cui ha sempre attinto. Li colloca, finalmente, nel loro ambiente naturale, restituendoli al loro mondo, alla loro dimensione. Sono la ricerca costante, instancabile e sofferta di quella che è la vita, il senso dell'esistenza e del mondo, che Pavese ha sempre cercato nel mito. La ricerca dell’io, del senso della bellezza, della morte, della sofferenza, dell’amore, del destino.

Nei “Dialoghi” Pavese ha indossato, attraversato un linguaggio che, finalmente, gli ha consentito di approdare ai temi cardine dell’uomo contemporaneo. Il mito come proiezione della mente umana, per esorcizzare i mostri dell’inconscio. L’uomo entra nel labirinto del mito, per trovare una via d'uscita dal labirinto della propria mente. Pavese era riuscito in questo suo intento. O forse vi era riuscito solamente con la scrittura, non con la vita.

I “Dialoghi” sono arrivati a noi con le ultime parole scritte da Pavese. Una copia del libro fu trovata sul comodino a fianco del letto, su cui Pavese scrisse, con una penna stilografica, le sue parole d' addio: Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”.


Ma nel libro venne ritrovato un altro foglietto, (notizia venuta alla luce solo lo scorso anno). Si tratta di un cartellino di prestito della Biblioteca Nazionale di Torino che porta la data del 16 gennaio 1950 e il numero progressivo 2920. Sul retro Pavese vi appuntò tre frasi, usando questa volta una matita dalla punta viola.


La prima, tratta dall’episodio dei Dialoghi "Le streghe”, così recita: L' uomo mortale, Leucò, non ha che questo d' immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia”.

La seconda è una citazione da “Il mestiere di vivere”, e si pensa che sia stata scritta qualche giorno prima della sua fine: “Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti”.

La terza frase, è lapidaria: “Ho cercato me stesso”.

Forse che queste frasi costituiscono il suo vero testamento?


Il sabato 26 agosto 1950, Pavese chiese alla sorella Maria, con cui divideva un alloggio in via Lamarmora 35, di preparagli la solita valigetta usata per i viaggi brevi. Una cosa che non destò nessuna meraviglia, dato che ogni fine settimana lo scrittore faceva una gita fuori Torino con amici. Ma “quel giorno si reca in via Valdocco - ricorda Lajolo - alla redazione dell’Unità. Trova Paolo Spriano, un giovane amico, e senza dirgli altro gli chiede soltanto se nell’archivio del giornale esiste una sua fotografia”. Scelse quella dove il suo volto appariva più triste e se ne andò, sorridendo.

Nella borsa aveva messo una copia dei “Dialoghi con Leucò”. Salito sul tram diretto per la stazione, invece di recarsi verso i binari, si ferma all’albergo Roma, chiedendo una camera con il telefono. Aveva bisogno di trascorrere quelle ore in compagnia. Fece molte chiamate, quel giorno, chiuso in quella piccola camera. Al centralino si udì anche la voce di Fernanda Pivano, sua ex allieva divenuta grandissima amica e confidente, nonché amore platonico, sposatasi nel 1949 con l'architetto Ettore Sottsass.

Non essendosi presentato né a pranzo né a cena, un cameriere, verso le 20.30 di domenica 27, si insospettì e prese a bussare alla porta parecchie volte. Nessuna risposta. Sul comodino giacevano abbandonate sedici bustine aperte di sonniferi. Il cadavere sul letto, composto, senza giacca né scarpe. Accanto, i "Dialoghi" con la frase scritta a mano sulla prima pagina nelle ore precedenti.

La stanza 346 da allora è rimasta intatta, come se il tempo si fosse cristallizzato nell’istante in cui il corpo senza vita dello scrittore venne ritrovato. Sopra il comodino, appeso alla parete c'è ancora il grosso telefono nero della Siemens, funzionante. Chissà se Pavese in quella domenica d'agosto ha lanciato dei messaggi, delle richieste d'aiuto che dall'altro capo del telefono nessuno ha saputo cogliere?

 
 
 

Comments


Post: Blog2_Post

©2021 by Carlo Colombo.

bottom of page