Fausto Coppi, il volo dell'airone.
- Carlo Colombo
- Apr 29, 2021
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Updated: May 3, 2021
Uno dei più grandi campioni del ciclismo e dello sport italiano in assoluto, Fausto Coppi nasce a Castellania, in provincia di Alessandria, il 15 settembre 1919. Comincia ad andare in bicicletta sin da ragazzo, facendo le consegne per una salumeria. Inizia la sua carriera nel ciclismo a diciotto anni e due anni dopo passa al professionismo.Viene ingaggiato dalla Legnano, la squadra di Bartali. Nel 1940 vince il suo primo Giro d’Italia: ha solo vent’anni!

L'entrata in guerra dell’Italia blocca la carriera di Fausto, che parte per l’Africa. Nel 1946, a Liberazione avvenuta, può riprendere l’attività sportiva. Entra nella squadra della Bianchi lasciando la Legnano: inizia così l'epica rivalità con l’altro grande campione, Gino Bartali che divise l'Italia in due contrapposte fazioni sportive e non solo.
Il 1949 è l’anno della sua consacrazione alla dea alata delle vittoria: vince la Milano Sanremo, il Giro d’Italia e il Tour de France. Purtroppo, fanno seguito una serie di drammatiche vicende: nel 1950 si procura una tripla frattura al bacino durante il Giro d’Italia e l’anno dopo muore in un incidente, durante il Giro del Piemonte, l’amato fratello Serse.
La sua carriera però riprende subito alla grande: nel 1952 e nel 1953 arrivano le vittorie al Giro d’Italia, al Tour de France e al Campionato del Mondo su strada. Dopo questi successi e molti altri, seguono anni meno favorevoli e segnati da difficili vicende personali.
Fausto Coppi si era sposato nel 1945 con Bruna Ciampolini e nel 1947 è nata la figlia Marina. Nel 1953 Fausto conosce Giulia Occhini, colei che per la stampa diventerà “la dama bianca” e lascia la famiglia. Per l’Italia di quegli anni è un fatto inaudito e di portata eccezionale, specialmente perché si tratta di una celebrità. Ancora una volta il nome del Campionissimo riempie tutti i giornali, ma non più per le imprese sportive. Ci sarà un processo con una condanna per Fausto e Giulia che dovranno espatriare, prima in Messico per sposarsi, poi in Argentina per dare alla luce il loro figlio Angelo Fausto (Faustino) in modo che possa prendere il cognome del padre.
Il 2 gennaio 1960, all'ospedale di Tortona, Fausto Coppi muore all’età di quarant’anni, a causa della malaria contratta durante un viaggio in Africa. Vi era stato pochi mesi prima con alcuni amici ciclisti francesi, per disputare delle gare e partecipare ad una battuta di caccia. Al ritorno all'amico Géminiani era stata diagnosticata correttamente la malaria, mentre a Coppi i medici avevano diagnosticato una forte influenza. Purtroppo la diagnosi è sbagliata, di conseguenza anche le cure. I medici rimasero fermi sulle loro posizioni, nonostante la moglie di Géminiani avesse telefonato per avvisarli che si trattava di malaria. Bastava solo un esame del sangue, un pò di chinino e tutto si sarebbe risolto positivamente. Ironia della sorte Coppi, quando era militare in Africa, aveva contratto la malaria ed era, appunto, guarito col chinino.
Nonostante le polemiche e il finale beffardo della sua carriera, rimangono nella memoria collettiva le grandi vittorie fatte di tenacia, di strade sterrate e polverose, di sudore, di volontà che lo hanno portato spesso ad essere per tutti noi: “Un uomo solo al comando!”
Nella sua ventennale carriera da professionista Coppi vince ben 151 corse su strada, 58 delle quali per distacco, e 83 su pista. Indossa per trentuno giorni la maglia rosa del Giro d’Italia e per diciannove la maglia gialla del Tour de France. Al Giro vince ventidue tappe, al Tour nove. Dal 25 marzo 2019, in suo onore il nome del paese natale è diventato Castellania Coppi. Io gli dedico una mia poesia.
Presto hai lasciato la dura zolla,
per tornanti secchi, cattivi,
tappe di un’esistenza non facile,
traguardi sofferti, regalati mai.
Bastava un tuo scatto,
gli avversari rimanevano fermi,
sembravano scivolare all’indietro.
La durezza della fatica,
la sconfitta,
non trovano spazio,
nel tuo vocabolario.
La testa lievemente infossata,
le gambe lunghe, sottili,
le ginocchia magre,
il torace ampio, carenato,
macchina perfetta e fragile.
Vorticoso mulinello,
pedalavi senza soste,
come un airone,
aprivi le ali alla vittoria,
senza un sorriso.
Il tuo respiro calmo, lento,
il naso lungo, affilato,
gli occhi tristi.
Una voce dentro,
sussurrava qualcosa,
ti teneva inchiodato.
Il tubolare incrociato sulla schiena,
segno dell’infinito,
come infinite le tue pedalate,
le corse, le vittorie.
“Un uomo solo al comando”,
per un traguardo ultimo, definitivo.
Una grande folla incredula,
in una fredda giornata di nebbia,
per accompagnarti in quell’ultima fuga.
Per arrivare insieme in cima al colle,
sollevando il tuo feretro,
ma, questa volta per non farti volare via.
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