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Fatti  per  far  ridere

RACCONTI, STORIELLE, POESIE, AFORISMI...

Ogni tanto abbiamo tutti bisogno di un pò di leggerezza, è una necessità per chi legge e per chi scrive. Dunque, divertiamoci...

fatti per far ridere: Lavori
Back to School Objects

L’uomo, il ventilatore, il girarrosto e i grafici

(l'ascesa, la caduta e la risalita di un redattore finanziario)

introduzione

A volte nella vita ci troviamo in situazioni di privilegio. Tanti possono essere i motivi e le cause che hanno portato a questo risultato.

Ci sembra del tutto naturale, scontato. Ci beiamo, immersi nella nostra area di comfort, pensiamo che tutto sia facile e dovuto. Dimenticandoci che una massima recita: “Nulla è più costante del cambiamento”. Anche Francesco, il nostro protagonista, un giorno se ne rende conto amaramente. Da allora il suo destino prende una direzione diversa: non voluta, ma subìta. Alla fine di questa esperienza Francesco ne uscirà migliorato, forse più maturo e… sicuramente con qualche chilo in meno.



La scoperta

Entrando in quell’ufficio, in una calda e afosa mattina di un giorno di luglio, di una torrida estate del secondo decennio dell’anno duemila, mi accorsi tutto ad un tratto (o se preferite di colpo), chi esercitava effettivamente il potere: prima non vi avevo prestato nessuna attenzione.

Gli impiegati erano seduti alle loro scrivanie, rigorosamente dello stesso colore, foggia, materiale e dimensione. Tutti avevano in dotazione un pc portatile, un cellulare. Nessun elemento di questi poteva essere letto, considerato come segno di distinzione, di livello gerarchico superiore degli uni rispetto agli altri. Improvvisamente notai un foglio che, nonostante la calma piatta, si sollevò da una pila di documenti collocati su una scrivania alla mia sinistra e atterrò ai miei piedi. “Strano!” mi dissi. Non c’era un filo d’aria nella stanza che potesse causare tutto ciò. L’impianto dell’aria condizionata era guasto da almeno una settimana, e lo sarebbe rimasto a lungo. Mi girai e vidi una cosa strana, di cui non mi ero accorto prima. Un uomo chiuso nella sua camicia bianca, stirata alla perfezione, con i gemelli ai polsini, si godeva il fresco beandosi, mentre i colleghi boccheggianti imploravano un refolo d’aria anche per loro. Sotto gli occhialini griffati appena appoggiati sulla punta del naso, i suoi occhi sorridevano in modo beffardo e l’uomo era insensibile ad ogni richiesta di aiuto. La sua dura scorza non veniva minimamente scalfitta. Così accadeva sin dall’inizio di quella torrida estate del 2019. Quasi dimenticavo: come gesto di ulteriore sfida l’uomo indossava sotto la camicia, una canottiera a righine double-face, cotone a contatto con la pelle e cashmere all’esterno.

Il caldo ogni giorno cresceva, così come cresceva il sentimento di intolleranza, di odio da parte dei colleghi. Nessuno però osava intervenire, l’uomo con la sola prestanza fisica sovrastava tutti, nessuno osava fiatare. Anche Bruna che all’inizio lo giustificava, perché era convinta che ci fosse una valida ragione alla base di quel suo bizzarro comportamento, alla fine si era dovuta arrendere. E dire, che si era rivolta anche ad un luminare in campo medico. Un suo conoscente, primario all’ospedale San Gerardo dei Tintori di Monza, le aveva spiegato che il nostro Francesco soffriva di una sindrome che andava sotto l’acronimo di STP. Che voleva dire “Squilibrio Termico Permanente” di cui erano conosciute le conseguenze, ma non ancora le cause.


Anche i ventilatori hanno un’anima

Per fortuna anche le cose vedono, ascoltano cioè, hanno un’anima, un senso di giustizia. Il ventilatore non ne poteva più di essere uno strumento di discriminazione. “Basta, quando è troppo è troppo!” e allora decise di smettere di funzionare. E così puntualmente fece.

Il mattino seguente Francesco, si sedette come al solito alla sua scrivania, premette il tasto, ma le pale del ventilatore non si muovevano. Francesco era appassionato di bricolage, prese il suo set di cacciaviti dal quale non si separava mai, e iniziò ad armeggiare sotto lo sguardo attento e beffardo dei colleghi. Ma dopo diversi tentativi, dovette desistere. Il ventilatore non ne voleva sapere di rimettersi in moto.

Prese allora il libretto delle istruzioni, per cercare un centro di assistenza. Digitò il numero verde ivi riportato. Si aspettava di ascoltare una voce preregistrata che lo avrebbe sicuramente indirizzato al centro più vicino all’ufficio. Ma non fu così.

Dall’altro lato del filo, una voce nasale rispose: “Francesco, perché mi chiami ora? Non sarebbe stato meglio mettere a disposizione il tuo ventilatore anche per gli altri colleghi? Come sempre ha prevalso il tuo egoismo e il tuo ventilatore si è ribellato. Ora pretendi che torni a funzionare!”  Francesco sino ad allora aveva ascoltato la voce in silenzio, era rimasto senza parole (cosa che non gli era mai capitata sino a quel momento). Si sentiva immerso in una situazione kafkiana, si riprese e disse: “Chi parla?” “Lei, come è venuto a conoscenza di queste cose?”. “Eh, eh, eh” (tralascio la lunga sequenza di "eh" che seguirono ai primi tre) la risposta fu un ghigno, semplicemente un ghigno. “Non mi hai riconosciuto, sono Stefano. Stefano Lorenzo Mimosa, il tuo ex-capo, la tua coscienza critica”. “Certo che non sei cambiato. Sei sempre il solito egoista. Non mi hai mai dato una dritta sui titoli azionari da acquistare. Beh, lasciamo perdere! In ogni caso tutto ha un prezzo. Come dite voi della finanza: non c’è rendimento senza rischio, nessun pasto è gratuito. Quindi, prima di aggiustare il tuo ventilatore dovrai scontare una piccola pena che ti aiuterà ad apprezzare meglio quello che hai. Domani mattina alle 7 in punto ti dovrai presentare da Paolino il girarrosto. Lì riceverai, sicuramente, un caldo benvenuto e ti sarà spiegato cosa dovrai fare per un mese, per scontare la pena per le sofferenze che hai arrecato ai tuoi colleghi”.  Solo a sentire il termine girarrosto, il nostro Francesco era diventato una specie di fontanella inarrestabile di sudore. In questi casi si dice madido, nel suo caso aggiungiamo pure tutti i sinonimi possibili: umido, fradicio,  intriso, 

grondante. Ma la decisione era presa, e così il giorno dopo, Francesco iniziò il suo stage non retribuito da Paolino.

Ogni mattina Francesco arrivava alle 7, vale a dire un’ora e mezza prima dell’apertura del negozio al pubblico e scaricava il camion della legna. Francesco portava i cesti di legna tagliata nel retro e la accatastava, infilzava i polli nello spiedo e accendeva il girarrosto. Ma prima di mettersi al lavoro firmava il foglio presenze, operazione che poi ripeteva a fine giornata. Patrizia, una sua collega d 'ufficio,  provvedeva a ritirare il foglio il giorno dopo e prontamente a rendicontare a Mimosa che aveva assunto l’incarico di tutor a distanza.

Alla fine dello stage, Mimosa doveva certificare le competenze acquisite e rilasciare al nostro Francesco il patentino di girarrostista valido in tutti i paesi della Unione Europea. A tal proposito, il nostro Lorenzo riceveva ogni fine settimana il questionario di valutazione da parte del titolare del girarrosto.



Epilogo

Una mattina come tante altre Francesco si recò al lavoro, e trovò come al solito il titolare. Quest’ultimo gli comunicava che il periodo di stage era terminato e che il dottor Mimosa aveva firmato il nullaosta per il suo tanto agognato rientro in ufficio.

A Francesco tutto ciò non sembrava vero. Per quel mese, oltre al patimento per il caldo, si erano aggiunti gli incubi notturni. Non riusciva ad addormentarsi. Sognava i polli che si sfilavano dal girarrosto e si rivolgevano a lui dicendo: “Perché ci fai questo? Cosa ti abbiamo fatto di male? Ti piacerebbe essere tu al nostro posto?”. Da allora Francesco fece voto che non avrebbe mai più mangiato carne di pollo e di altri volatili. Da lì a poco, quasi per magia, anche gli incubi notturni finirono. Ma le sue disavventure no. Quelle proseguivano per conto loro.

Una mattina entrando in ufficio, dove il suo ventilatore era ritornato a funzionare senza alcun intervento di riparazione, vide una busta chiusa indirizzata a lui. Il mittente era un noto studio legale newyorkese che rappresentava i signori Bloomberg, Secunda, Zegar e Mc Millan. Scorrendo il testo della missiva, scritto ovviamente in inglese, Francesco capì subito che non si trattava di una cosa positiva.

Stante la sua conoscenza approfondita della lingua straniera, venne subito al punto. In breve, veniva accusato di aver scompaginato i grafici e di aver, quindi, diffuso in rete notizie false circa l’andamento dei mercati. E, per di più, oltre ad aver causato danni ingenti ad investitori istituzionali e privati veniva accusato di aver ottenuto un indebito vantaggio e di aver incassato laute plusvalenze. Il mondo gli cadde addosso! (pur essendo grosso di corporatura, ne sentì tutto il peso).

Come avrebbe potuto scagionarsi da quelle accuse? Nel caso invece che le accuse fossero state provate, quale multa gli avrebbe comminato la FED e con quali mezzi finanziari avrebbe potuto farvi fronte? Vedeva già il suo TFR pignorato.

Il telefono si mise a squillare. Saranno i legali di Bloomberg? Sudava freddo, ora il ventilatore non gli serviva più. Si vedeva già dietro le sbarre di una prigione in una lontanissima contea degli Stati Uniti d’America, in un pigiamino extra large a righe bianche e blu.

No. Per fortuna lo stava chiamando Francesco. (non è che nel suo ufficio si chiamano tutti Francesco, ma in questo caso era proprio un altro Francesco che lo chiamava). “Ciao Francesco, posso disturbarti?”, così disse Francesco Chiari, l’altro, al nostro. “No dimmi pure”. “Ieri passando vicino alla tua scrivania non ho potuto far a meno di notare una busta proveniente dagli USA, mi chiedevo se ti hanno chiamato per tenere quel famoso seminario di finanza cui tenevi tanto?”. “Magari fosse così. Temo che mi abbiano scritto sì per andare in America, ma per un tempo un po’ più lungo di quello di un seminario. Diciamo che, tra le tante, preferirei non partire, dato che nutro una qualche incertezza sul ritorno”. E così Francesco raccontò in breve (si fa per dire!) la sua disavventura all’altro Francesco. Dopo due ore e qualche minuto di un dettagliato racconto, Francesco Chiari chiese il permesso di assentarsi perché doveva svolgere un’attività non delegabile.

Ora Francesco si sentiva più leggero per aver raccontato tutto all’amico di sempre. Peraltro, anche quest’ultimo ora si sentiva più leggero e, tra sé e sé, stava già pensando come poteva aiutare l’amico ad uscire indenne, o almeno a limitare i danni, da quella incresciosa situazione. Tutto sembrava così complicato, senza una possibile soluzione che non fosse la comparsa di Francesco di fronte all’Alta Corte degli Stati Uniti d’America, nella sezione deputata a giudicare i reati finanziari. Immerso in questi pensieri e, soprattutto, pensando alla dieta che l’amministrazione carceraria americana gli avrebbe imposto, girava e rigirava tra le mani la lettera che gli avvocati di Bloomberg gli avevano inviato. Non sembrava esserci via di scampo. Si era rassegnato.


Post-epilogo

Se l’esperienza da Paolino lo aveva scosso, la lettera da parte dello studio legale di Bloomberg aveva steso definitivamente il nostro Francesco. Stava vivendo una vera e propria crisi d’identità. Tante domande si affacciavano prepotentemente alla ribalta della sua mente, nessuna trovava però una risposta soddisfacente: “Chi c’è dietro tutto questo? “È mai possibile che due sventure possano concatenarsi con tale precisione micrometrica? “Come mai non avevo ancora terminato lo stage da Paolino e la lettera di Bloomberg era apparsa già sulla mia scrivania? Chi è il regista occulto di questa manovra e cosa mi devo aspettare ancora?”

Mentre tutte queste domande scalfivano la montagna di certezze che nel tempo Francesco si era costruito, un giorno spostandosi in auto verso Pavia per tenere una conferenza sulla finanza avanzata (mi sono sempre chiesto qual è il vero significato) presso la locale Camera di Commercio, nei pressi di Binasco (di solito è Damasco, ma in auto non ti autorizzano la trasferta) venne colto da una folgorazione o meglio dalla suoneria del cellulare aziendale. Chi lo stava chiamando? Forse che un’altra tegola gli stava cadendo addosso? Sullo schermo era apparsa la dicitura sconosciuto. Per togliersi dall’ansia Francesco decise comunque di rispondere. “Ciao Francesco, sono Paola”. “Paola chi?”. Pensò tra sé e sé il nostro sventurato. Poi si riprese subito da quell’attimo di smarrimento e riconobbe la voce di Paola Flaconcini, ex-collega per tanti anni. Senza tanti preamboli Francesco raccontò la sua tragica situazione, aveva un disperato bisogno di sfogarsi con qualcuno, avere un qualche suggerimento, una parola di conforto.

Ascoltato tutto il racconto, nel frattempo Francesco aveva superato ogni possibile uscita per Pavia da un pezzo e davanti a lui c’era il cartello che indicava Genova, Paola prese tempo prima di rispondere e per raffreddare il suo orecchio destro che era diventato bollente. Per prima cosa gli chiese di inviargli via mail, il testo della lettera che aveva ricevuto. Subito il nostro inviò quanto richiesto e Paola chiuse la telefonata dicendo che una soluzione ci doveva essere per uscire da quel guaio e che lo avrebbe richiamato, appena letta la lettera.

Non passò molto tempo. Ecco la soluzione. La lettera gli era stata recapitata erroneamente. In realtà era diretta ad un suo quasi omonimo che lavorava sempre nella stessa azienda, ma da tutt’altra parte. Difatti la lettera era indirizzata Bertolotti Francesco che tra l’altro, questo si seppe poco dopo, aveva anche lui il vizio di tenere perennemente acceso il ventilatore sulla scrivania che, ironia della sorte, soffiava sullo schermo dove ogni giorno scorrevano i grafici e i dati di Bloomberg: ecco spiegato lo scompaginamento!

Il nostro Francesco, che di cognome faceva invece Bertoletti, fu sollevato, si sentiva leggero, di nuovo libero. L’idea della prigione aveva ormai lasciato spazio a quella di un buon ristorante dove potersi rifocillare e riprendersi dallo spavento. Dopo mille ringraziamenti a Paola e la promessa di incontrarsi a breve, si fiondò verso l’uscita di Genova Nervi per raggiungere il noto ristorante “Il Molo”. (dove aveva già pranzato in passato con l’altro Francesco). Dopo una lauta cena, riprese la sua vettura per tornare a Milano, senza però tralasciare alcune riflessioni sulle vicende in cui si era trovato invischiato, suo malgrado. Pensò di affidarsi alla registrazione della sua voce sullo smartphone.


Dear colleagues,

fra le tante diciamo che non avrei mai pensato che l’utilizzo di un ventilatore potesse condurre a tali conseguenze, perciò d’ora in avanti non ne farò più uso personale. Lo metterò a disposizione di tutto l’ufficio. Per sempre!

Sono guarito dalla dipendenza, posso farne a meno, esco da tanti anni di schiavitù. Non sento più la necessità di avere davanti a me pale che girano vorticosamente. Inoltre, ho inviato regolare disdetta dell’abbonamento a Bloomberg. In verità, mi ero stufato di tutti quei grafici indecifrabili su sfondo nero. Basta, basta, basta!  (Tre basta possono bastare, per sottolineare lo stato d’animo di Francesco). D’ora in avanti i grafici li farò io, personalmente, tutti colorati, rigorosamente a mano, come l’arcobaleno e su carta pergamena.

Continuerò, invece, a scrivere  e pubblicare articoli di finanza, posso rinunciare al ventilatore, ai volatili ... ma non toglietemi la volatilità.

Yours sincerely, Francesco s.v.p.

(s.v.p. sta per senza ventilatore permanentemente).


Minima finale

Tutto è bene, quel che finisce bene! E fu così che il nostro Francesco tornò sereno alla sua casa, alle sue vacanze in Carinzia, ai suoi ristoranti stellati e, soprattutto, ai suoi amati grafici.  Ma questa volta fatti a mano e senza un ventilatore che potesse soffiarci sopra.

Per cautela non accendeva più  l'aria condizionata. Tra le tante, per cause ancora sconosciute era guarito anche dallo STP.

(I personaggi di questa storia sono veri, la storia è inventata, ma alcuni particolari sono altrettanto veri quanto i personaggi).

                                                                                               

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Il parcometro solitario

(parcometri di tutto il mondo, unitevi!)

Ho trovato una notizia in internet che ci dice che ormai il marketing, con le sue offerte speciali, è entrato a pieno titolo anche nelle aree di sosta a pagamento: le odiate strisce blu. "Debutto della sosta a pagamento e l’amministrazione comunale applica già uno sconto. I primi quindici minuti saranno sempre gratuiti, una decisione che va incontro a chi deve semplicemente comprare il giornale o una veloce commissione. Il sistema è semplice: basta inserire nel parcometro il numero di targa del veicolo, uscirà un tagliandino a costo zero corrispondente a un bonus parcheggio di 15 minuti. Lo stesso trattamento lo riceverà anche chi dovrà sostare più a lungo: i primi 15 minuti saranno sempre gratuiti.” Che bello, iniziativa lodevole! Però se un giorno dovessero sparire le strisce blu… Era meglio quando erano tutte bianche, la sosta era gratuita e non c’erano i parcometri. L’altro giorno parcheggiando nelle strisce blu sono andato alla ricerca di uno di questi aggeggi, di queste colonnine che ormai hanno invaso la città. (Secondo me era più utile che ci tenevamo le fontanelle per l’acqua e i vespasiani: anche se questi ultimi creavano una qualche discriminazione. Però il decoro urbano ha le sue leggi che noi, comuni mortali, non possiamo comprendere). Detto questo, mi sono immaginato che  i parcometri hanno una coscienza sociale, in fondo perché no, anch'essi come i ventilatori, hanno un’anima. Da questa riflessione è scaturita una mia poesia dal titolo: “Il parcometro solitario”. 

 

Sentinella indesiderata del mio tempo,

delle strisce blu, compagno di strada,

killer del gratta e sosta,

ti odio.

Ti odio per tutte le volte che,

non hai accettato la mia carta di credito,

ho finito le monetine, 

non ti ho trovato,

ho preso la multa.

Ti odio perché esisti,

perché al posto del cuore,

hai un arido software.

Non lo sai,

io lo so,

anche tu soffri.

Non hai riparo,

sei indifeso,

dai raggi del sole,

dalla pioggia battente,

dal gelo, dalla neve,

a volte, anche dai cani,

che ti dimostrano tutto il loro affetto.

Parcometro,

lascia la tua fredda armatura,

prendi un pennello,

dipingi di bianco le strisce blu.

Così in ogni automobilista,

tornerà il sorriso,

per te, ci sarà,

tanto amore,

e non sarai più, da solo.

aggiornamento: dopo la pubblicazione di questo post, alcuni parcometri si sono riuniti e hanno fondato una loro associazione di categoria, al grido di: "Parcometri di tutto il mondo, unitevi!"

Stirate camicie bianche

Lavasecco Marelli

(quando lavoravo a Sesto San Giovanni)

Abbiamo mai avuto occasione di leggere le condizioni che regolano il rapporto contrattuale che intercorre con la nostra lavanderia di fiducia? Se non l’avete ancora fatto, fatelo al più presto. Potreste incorrere in una situazione che mi è capitata in quel di Sesto San Giovanni, qualche anno fa. Arrivato a Sesto, dopo il problema del parcheggio, peraltro mai risolto, mi sono trovato ad affrontare il tema della stiratura delle camicie. Fortuna vuole che poco più avanti, sullo stesso lato del marciapiede dove avevo l’ufficio, c’era un lavasecco all’epoca gestito da Nicola, un quarantino (come direbbe Montalbano) di origine egiziana. Un imprenditore molto attento alla soddisfazione del cliente. (Uso i verbi al passato poiché tre anni fa ha ceduto l’attività agli onnipresenti cinesi ed è ritornato in Egitto). Metteva sempre a disposizione quelle che lui riteneva fossero le migliori caramelle sul mercato italiano. Di certo, anch’esse sapevano dimostrare tutto il loro attaccamento al cliente, soprattutto, al lavoro del dentista. Originale anche il cartoncino azzurro, munito di tasca dove inseriva lo scontrino fiscale, emesso dopo che avevi consegnato i capi per la stiratura o altro genere di lavorazione.  Egitto o non Egitto,  comunque, svettava il cammello, pardon il cartello: “Per colpa di qualcuno, non si fa credito a nessuno”. Vediamo ora cosa c'era scritto sul già citato cartoncino azzurro.


IMPORTANTE. Avvertenze formali esecutive della ditta per la tutela del Cliente.

Si fa presente alla Spett.le Clientela, che la Ditta non è responsabile delle seguenti forme

di possibile evenienza qui sotto chiaramente indicate.

1 - Bottoni mancanti o rovinati.

2 - Oggetti di qualsiasi genere, lasciati in giacenza nei capi destinati alla prestazione di servizio.

3 - Non si accettano reclami oltre i tre giorni dal ritiro della prestazione effettuata.

4 - Il Cliente deve essere rigorosamente munito di scontrino.

5 - I capi definiti rovinati o smarriti saranno risarciti nelle forme legislative attuali.

6 - I prezzi visibilmente esposti sono indicativi e non determinanti.

7 – I capi dovranno essere ritirati entro 1 MESE dalla consegna, dopodiché perderà ogni diritto di possesso.

La Ditta ringrazia della cortese attenzione sperando che ci si possa intendere meglio

 per una migliore collaborazione.


Bene, avete letto. Vi garantisco che la mia è una trascrizione fedele. Non c’è nulla d’inventato. Anzi lo stesso Nicola mi ha sempre giurato che il tipografo non era un arabo con scarsa conoscenza dell’italiano, bensì un italiano al 100%. Da parte mia ho sempre sostenuto che il tipografo era un italiano che, oltre a non conoscere l’arabo, aveva anche una leggera difficoltà ad esprimersi nella sua lingua madre.

Se proprio vogliamo essere precisi, una leggera difficoltà. In ogni caso, vi invito a leggere il cartoncino della vostra lavanderia e, se lo trovate ancora più originale di questo, fatemelo sapere. Lo pubblicherò sicuramente.

Conferenza stampa

La preparazione è la chiave del successo

(ma non è nulla, se manca un pò d'improvvisazione)

Quella sera l’Amministratore Delegato di MiaVita, Alberto Corti Baldinucci che, d’ora in poi, indicheremo semplicemente ACB, aveva un impegno mondano. Peccato che il tacco in gomma di una scarpa, non se la sentiva più di rimanere fermo al suo posto. Essendo chiusi i calzolai e  vista l'ora tarda, bisognava intervenire d’urgenza. Allora recuperai dalla bacheca due chiodini con la capsula in plastica, li liberai con la pinza di quest’ultima per renderli idonei alla riparazione. ACB rimase con solo il calzino al piede destro, io mi apprestai a battere i chiodini con il martello per assicurare di nuovo il tacco alla sua sede naturale.  Il primo  entrò senza opporre resistenza. Purtroppo, il secondo prese una brutta piega, pur riuscendo a raddrizzarlo in gran parte, alla fine, dovetti ribatterlo, lasciando una lieve sporgenza. Comunque, il tutto sembrava a posto, l’emergenza era stata affrontata e risolta.

Il giorno dopo, arrivato in ufficio andai a trovare ACB per sapere com’era andata la serata. “Complessivamente bene” rispose. Stavo già sorridendo, quando aggiunse: “Peccato però che il pavimento era in legno. All’ingresso, ruotando sui tacchi per salutare gli altri invitati, ho lasciato come ricordo una striscia di una decina di centimetri, la padrona di casa non ha apprezzato molto. Credo d’aver compreso che, in futuro, non riceverò più inviti da lei e forse da qualche altro invitato”. Fortuna vuole che la discussione cadde poi, su un argomento che stava molto a cuore al nostro ACB. Da lì a qualche settimana, in occasione del debutto ufficiale sul mercato di MiaVita avrebbe dovuto  parlare in pubblico al teatro Manzoni di Milano, davanti ad una platea di seicento invitati.  La cosa gli procurava un’agitazione crescente e palpabile. Mi offrii di scrivere il discorso e dargli tutti quei consigli che provenivano dalla mia esperienza di trainer-formatore, maturata in una società multinazionale di matrice svizzero-tedesca. Al di là dei risultati futuri di questo mio compito, quantomeno l’obiettivo di breve periodo di distoglierlo dal pensiero della brutta figura rimediata, grazie alla rigatura del parquet, era stato raggiunto.

Scrivere il discorso non era stato difficile. Avevo peraltro deciso di contenerlo in una dozzina di minuti, né troppo breve, né troppo lungo, anche tenendo conto della resistenza fisica ed emotiva di ACB, non avvezzo a parlare in pubblico. Purtroppo, non avevo considerato i successivi “colpi di matita” che avrebbe inferto il Direttore Generale Pietro Colavolpi, uomo di fiducia del Presidente Gabriele Caramellini. Erano dei propri e veri interventi di scrittura manuale, in quanto Colavolpi non usava il computer, ma bensì un lapis che temperava accuratamente ogni volta. Questi allungamenti di brodo avevano lo scopo unico e primario di non trascurare i ringraziamenti a qualche pezzo grosso del gruppo bancario meneghino, azionista di maggioranza della compagnia MiaVita. Alla fine, il discorso aveva raggiunto una durata di quasi trenta minuti: in buona sostanza era più che raddoppiato, ora toccava a me allenare ACB.

Le prove durarono complessivamente una quindicina di giorni. La preparazione consisteva nel leggere il discorso più volte davanti allo specchio, registrare e risentire la propria voce sino a sentirsi abbastanza “confident”, come spesso dicono i consulenti di famose e prezzolate società multinazionali. Il tutto doveva essere però supportato da iniezioni di coraggio e da telefonate rassicuranti, anche dopo l’orario di lavoro e nei giorni festivi. 

Finalmente il giorno della convention era arrivato, ACB si era preparato diligentemente ed era arrivato al teatro Manzoni con un certo anticipo e con la borsa contenente il discorso che, per evitare possibili errori di lettura, era stato stampato con un carattere 24 e anche il sottoscritto aveva con sé due copie. Della serie non si sa mai cosa può succedere ancora. Se la fortuna è cieca, la sfiga ci vede bene.

A questo punto sorse però un altro timore, ACB disse: “Se poi durante il discorso mi si secca la gola, come faccio ad andare avanti a leggere?”. Bisognava correre ai ripari. Infatti il leggio in plexigass, dove avrebbe appoggiato il discorso, oltre ad essere di materiale trasparente,  era pure inclinato di 45 gradi, perciò risultava impossibile piazzare un bicchiere e, men che meno, una bottiglia d’acqua. Non rimaneva che chiedere aiuto “all’uomo della banca  meneghina che si occupava delle pubbliche relazioni” e che coordinava anche le hostess. L’accordo fu preso: vediamolo nel dettaglio. Ad un gesto convenuto, che consisteva nel fatto che ACB toglieva entrambe le mani, prima appoggiate sul leggio e le lasciava cadere dietro la schiena in basso, una delle  hostess avrebbe portato un bicchiere d’acqua posizionato su una sedia, posta al lato del palco ove lei stessa faceva da sentinella. Ma accadde un inconveniente. Arrivato il momento di prendere la parola ACB, la hostess cui erano state date precise istruzioni su come comportarsi in caso di necessità, aveva terminato il suo turno. Allora mi attraversò un piccolo brivido di timore, subito placato dal fatto che “l’uomo della banca” aveva trasmesso le istruzioni alla hostess subentrante: le cose però non andarono del tutto secondo le previsioni.

La comunicazione che arriva non è mai uguale a quella che parte!

Ad un certo punto del discorso, diciamo dopo una decina di minuti, il nostro ACB lascia cadere le braccia lungo i fianchi e unisce le mani dietro la schiena, secondo gli accordi presi. La nuova hostess, non avvedendosi che sulla sedia accanto a lei vi era una bottiglia ed un bicchiere già colmo d’acqua, si muove verso il tavolo dei relatori, versa l’acqua in un bicchiere, va verso il leggio e lo porge ad ACB.  Quest’ultimo s’interrompe beve e ringrazia. Per fortuna tutto è andato liscio, ACB conclude il discorso e torna al tavolo dei relatori, dopo aver ricevuto l’applauso del pubblico in sala. All’intervallo mi avvicino ad ACB per sapere dal diretto interessato com’è andata, come si era sentito, come era riuscito a gestire la tensione. Alla fine di tutto, scopro che non si era neanche accorto di aver dato il segnale di portare l’acqua, perché non aveva avvertito nessuna necessità di bere. A quel punto, calata anche la mia di tensione, dopo aver immaginato mentalmente di compiere un gesto liberatorio che non potevo mostrare nella sua semplicità ed efficacia comunicativa, recuperai la bottiglia che era rimasta sulla sedia e bevvi tutto d’un fiato. A me, invece, era venuta proprio sete.

Caffè al bar

Bar Barico
(quando lavoravo a Sesto San Giovanni)

Sul viale Marelli ci sono bar per tutti i gusti, per tutte le tasche. Ognuno ha la sua clientela, più o meno fissa, vende più o meno le stesse cose, osserva gli stessi orari o quasi. Alcuni da sempre hanno lo stesso proprietario, gli stessi camerieri, pardon collaboratori, altri cambiano spesso di proprietà, di gestione: insomma c’è n’è per tutti i gusti, basta scegliere. Anch’io ho scelto, frequento il Bar Barico. 

Perché? Forse perché ho trovato quella dimensione che ti offre il bar di paese, dove la frequentazione non è legata semplicemente ad una necessità di consumo, di svago. È come compiere, quotidianamente, una sorta di rito tribale, sentire di appartenere ad un gruppo ben identificato, ad un clan. A volte il bar diventa come una seconda casa. Non ultimo, confesso la mia curiosità nell’ osservare certi atteggiamenti, nel registrare certi comportamenti, certi tic, abitudini e, a volte stranezze, che fanno parte di quell’umanità sempre uguale a se stessa, ma nello stesso tempo sempre in movimento, che sono i clienti di un bar. Infine, c’è anche il rimpianto, i ricordi di quando vivevo nel mio paese e frequentavo il Bar Sport. Ecco forse il Bar Barico è un po’ la naturale evoluzione, la sintesi di tutti i Bar Sport che molti di noi, miei coetanei, abbiamo frequentato dagli anni sessanta in poi, in qualsiasi parte d’Italia ci trovavamo. Di quei tempi rimane la nostalgia o meglio tante nostalgie. Per il jukebox con i dischi a 45 giri; il flipper, dove dovevi stare attento nell’evitare bruschi spostamenti se no usciva il tilt e ti mangiava la pallina in gioco; il calcio balilla; il biliardo con un tappeto più evergreen che green, cioè che non veniva mai sostituito; le granite al tamarindo, alla menta, al limone con i blocchi di ghiaccio fatti a pezzi con un martello con tracce di ruggine; la scopa d’assi o liscia; la scala quaranta; il poker, il gioco delle bocce; il telefono a parete con il conteggio degli scatti e, prima ancora, la cabina telefonica con i gettoni non collocata all’esterno ma bensì  all’interno del bar; i ghiaccioli che potevi vincere un altro se trovavi tre stelle sul legnetto; i boeri  a strappo della Zaini  che almeno vincevi sempre un altro boero, quasi ad anticipare il compri due paghi uno. Credo di non aver dimenticato niente: oggi tutto questo non c’è più o quasi. 

Dopo il bagaglio dei ricordi ci occupiamo degli avventori del nostro Bar Barico. Useremo dei nomi di fantasia per ovvi motivi di riservatezza e, in qualche occasione, enfatizzeremo alcuni comportamenti senza però allontanarci troppo dalla realtà, o almeno cercheremo di farlo il meno possibile. Prima di entrare nel Bar Barico ti trovi di fronte ad alcune domande fondamentali per la tua esistenza. Dopo aver messo la crocetta o esserti dato mentalmente delle risposte, puoi entrare. (vedi a piè di pagina).

A seconda dell’orario ti trovi di fronte a persone, a situazioni diverse, a episodi di vita quotidiana già vissuti, a volte anche a delle novità. Prima di parlare delle persone, ci occupiamo di una delle decisioni più importanti cui si trova di fronte un bar in tema di scelta dei fornitori: il caffè. Scelta non facile, soprattutto, se in poche centinaia di metri di marciapiede e dal lato opposto vi sono una decina di bar ciascuno con il proprio marchio di caffè, ovviamente diverso dagli altri. Bar Barico ha scelto il caffè Perù. Sul sito della torrefazione, nata nel 1955, troviamo il seguente slogan: “Perché accumulare chili di caffè in magazzino? Noi tostiamo e consegniamo caffè freschissimo ogni settimana”. E così è. L’addetto alla tostatura, processo determinante per definire il gusto del caffè e, quindi, il suo successo, è uno dei due titolari che qui chiameremo Mr. Perù. Mr. Perù si occupa anche delle visite alla clientela, della raccolta ordini e della consegna. Al Bar Barico lo incontri sempre due volte alla settimana: il martedì e il giovedì. Nel primo dei due giorni  prende gli ordini e poi effettua la consegna. La consegna del caffè non è una semplice consegna, ma piuttosto un rito che ha i suoi contenuti e i suoi tempi. Mr. Perù parcheggia una Panda anonima e scassata, scende dall’auto, i pacchi di caffè appena tostato sono sempre rigorosamente messi in un sacco di plastica tipo portabiti da negozio di abbigliamento. Indossa, sole o non sole, occhiali scuri, tipo Ray -Ban, si guarda intorno, attraversa la strada. Arrivato al Bar Barico Mr. Perù entra con circospezione, quasi fosse “un agente che abbiamo visto tante volte nei telefilm americani a partire dal tenente Kojak” che sta osservando attentamente gli avventori del bar per vedere se ci sono sospetti criminali. Una volta che ha concluso la fase di ispezione visiva, porge la borsa al barista, il quale provvede a mettere nell’armadietto i pacchi di caffè. L’operazione non consente ritardi temporali. Mr. Perù appare sollevato solo nel momento in cui gli viene restituita la famosa borsa di plastica spessa, color marrone adatta al trasporto di pellicce, che deve servire per un numero infinito di consegne. A questo punto, quasi per riflesso condizionato, il barista apre un sacchetto di caffè e riempie il macinino. Fin qui nulla di strano, se non fosse che ci troviamo di fronte al macinino elettrico da caffè più rumoroso che io abbia mai sentito: il cosiddetto “rumore leggermente stridente delle macine” ha lasciato il posto ad un rumore che si avvicina di più, ad essere buoni, a quello di un trapano orientato sulla funzione di martello a percussione. Numerosi e vani sono stati i tentativi di una richiesta di sostituzione caldeggiata anche dal sottoscritto, ma Mr. Perù rimane inamovibile: per cui finché Bar Barico continuerà a scegliere sempre lo stesso caffè, ci dobbiamo tenere anche il macinino con tutto il suo rumore. Comunque, il caffè è buono tanto che avevo lanciato l’idea di un breve sketch tra il barista ed un cliente che alla fine si concludeva con la frase “…però, Perù” da pubblicare su YouTube.  

Dopo il caffè e il cappuccino, viene naturale parlare delle brioches. Al Bar Barico sono lì in bella vista in una vetrinetta a più ripiani con le ante scorrevoli, pronte ad essere sacrificate nel rito quotidiano della colazione all’italiana. Le puoi riconoscere perché ciascun tipo è indicato da un cartellino, inserito tra due cerchiolini metallici che terminano con una punta che trafigge, a turno, la brioche interessata fino a che non si esauriscono tutte. Non ho mai capito perché la brioche vuota costi come le altre: forse che deve essere sottoposta ad un delicato procedimento fisico-chimico per creare il vuoto all’interno? Poi ci sono quelle con la crema, il cioccolato, la Nutella, la marmellata e, ancora, la girella, il fagottino, la treccia, la mignon e poi c’è lui, suamaestàilbombolone. Scagli la prima brioche chi non ha ricordi dei venditori di bombolone sulle spiagge della Romagna o della Toscana? Soffice e con un cuore cremoso conquista da sempre grandi e piccini, il bombolone è una di quelle delizie che non conoscono né mode né stagioni, immancabile sui banconi delle pasticcerie e delle caffetterie. Al Bar Barico sua maestà è posto in alto nella vetrinetta, in una posizione diametralmente opposta rispetto alla brioche vuota, quasi a voler sottolineare una certa differenza di classe, un ruolo di prestigio, una precisa gerarchia da rispettare. La scelta del bombolone è però a tuo rischio e pericolo perché, comunque, ti viene fornito come per il resto delle brioches, con un tovagliolino mini di iniziali cm 12,5 x 8,5, che una volta aperta l’aletta raggiunge la dimensione di 17 sempre per 8,5. Se vuoi aprirlo tutto diventa un quadrato di 17x 17, però a quel punto la carta entra in un processo di scambio osmotico prima con lo zucchero che riveste la superficie del bombolone, poi con la crema. Appena addenti il bombolone la crema trova la sua naturale via di fuga, per la nota forza di gravità ti cade sulla punta delle scarpe. Tutto questo accade se sei bravo a piegarti in avanti, se no ti va a decorare la cravatta, per chi ce l’ha, o la giacca o la camicia. Normalmente a fronte di questi rischi che a volte si sono trasformati in certezze, desisto. Però qualche volta ricado in tentazione, e mi tocca pagarne, consapevolmente, le conseguenze. 

A fianco della vetrinetta, dall’altra parte della porta d’ingresso, all’arrivo di ogni estate ricompare il frigo per i gelati. Non sappiamo dove abbia trascorso, da solo o in compagnia, i lunghi e freddi mesi invernali: abbiamo però la certezza che ogni anno ricompare. Quest’anno c’è però una novità: è stato dotato di una chiusura che non ti consente di spostare le ante scorrevoli e arrivare a prendere autonomamente il cucciolone, il cornetto, il croccante o altro. Forse che ci sono stati dei furti? Niente di tutto questo, il vero motivo è un altro. In qualche occasione, il frigo era stato utilizzato, all’insaputa dei nostri amici del Bar Barico, per tenere al fresco la spesa appena effettuata al vicino supermercato. Qualche volta era anche capitato che l’interessata tornasse a casa, dimenticandosi la spesa e tornasse a riprenderla dopo qualche giorno, lamentandosi del fatto che il frigo del bar non garantisse le stesse prestazioni del suo freezer. 

Come ogni esercizio aperto al pubblico anche il Bar Barico ha il suo bagno. La vera sfida consiste nel riuscire ad asciugarsi le mani. Prima c’erano i rotoloni tipo Regina, poi la precedente gestione aveva rilevato una crescita esponenziale nei consumi, tale da prendere in considerazione l’idea di installare un “miniasciugamani elettrico che fa tutto il resto, ma di certo non ti asciuga le mani”. Da allora è diventata una sfida a tutti gli effetti. Metti sotto le mani, ma non in modo tradizionale: devi adottare la posizione “mani giunte in posizione di preghiera che ti ricorda quando hai fatto la prima comunione”. Solo allora la diabolica macchinetta, rilevando la tua sudditanza psicologica, mossa da pietà, accenna ad emettere un soffio d’aria appena tiepida. Subito però ci ripensa e si ferma, lasciandoti così con le mani ancora completamente bagnate. Solo un asciugamano Dyson Airblade V ci potrà salvare con un risultato garantito in soli dieci secondi, ma l’acquisto è ancora tremendamente lontano. 

Adesso usciamo un momento dal Bar Barico, e dirigendomi verso l’ufficio, come spesso accade, incontro il custode del civico 79 di Viale Marelli. Il custode è alto, si fa per dire come Giacomo Poretti del trio Aldo, Giovanni e Giacomo e per di più, c’è anche una certa somiglianza, il nome però è diverso: si chiama Giancarlo. Da più di vent’anni è un punto di riferimento per i condomini, i corrieri, i fornitori, le colf, le badanti, la polizia locale, gli ufficiali giudiziari, i medici che visitano a domicilio, le ditte di manutenzione, i portantini della Croce Rossa, i visitatori occasionali, insomma per tutte le categorie umane e non che hanno a che fare con un condomino e chi vi abita. Credo che solo di questo potrebbe scrivere un libro, ma lasciamo a lui la decisione. Giancarlo, nel suo piccolo, coltiva diverse passioni: la più importante è il ballo. Ogni mattina si tiene in costante allenamento avendo come partner fissa una “scopa dal lungo manico che lo supera in altezza”, ma lui non mostra nessun complesso d’inferiorità, è a suo agio con la stangona e la sa prendere per il verso giusto.


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